La Legge del Karma

Il limite principale di tutte le religioni consiste sostanzialmente nel dimostrare particolare interesse per un precipuo aspetto della verità, la quale nella sua interezza invece le trascende e le supera tutte. Questi aspetti particolari della verità determinano i conflitti più assurdi a livello umano, mentre la conoscenza disposta a non fermarsi, satolla, alla prima esperienza facilita il dialogo tra le genti. L’invito più sensato resta sempre quello di liberarsi di tutti gli orpelli che ostacolano la percezione della completezza del vero. L’Aghori Vimalananda, a cui Svoboda si ispira in “La Legge del Karma” (edizioni Vidyananda, Assisi, 2003) invita ad imparare a trascendere tutto ciò che nella nostra esistenza può rivelarsi motivo di agitazione (ghora), con il semplice ed efficace assioma: ”E’ sempre meglio vivere con la Realtà, piuttosto che permettere alla Realtà di venire a vivere con noi”.

Gli Aghori, che letteralmente sarebbero i “non agitati”, si preoccupano soltanto di fare ciò che va fatto al momento, nella necessità contingente, di vivere cioè nel “qui ed ora”. Il loro credo si fonda sul Sampradaha (la cremazione) e lo sperimentano giornalmente, meditando sulla morte nel luogo dove si cremano i defunti (smashan). E’ lì che si purificano bruciando le loro limitazioni, per risorgere, come l’araba fenice, nella percezione assoluta della verità.

Tutto ciò che accade va accettato perché frutto della legge del Karma, la legge di causa ed effetto, che ci impone di raccogliere quanto è stato seminato; per cui la realizzazione della vita consiste nell’arrendersi in ogni caso a quanto la Realtà propone, avendo in ogni circostanza a che fare con quella parte di karma che, nel frattempo, è giunta per noi a maturazione, in risposta alle azioni compiute. Tant’é che molti aneddoti, la cui morale si riassume nell’affermazione “tutto ciò che Dio fa è per il meglio”, invitano ad abbandonarsi al fluire dell’esistenza.

“In verità – si legge nella “Bhrihadaranyaka Upanishad” (III,2,13)- si diventa buoni con le buone azioni e cattivi con le cattive”. L’unica vera certezza è la morte.

La mente che ama imparare con misura e comparazione (manas), attraverso il potere illusorio di Maya, è costretta a trascurare i dettagli, anche quelli importanti (ma che non riesce a comprendere nell’immediatezza), e per questo solo motivo della legge del Karma formula una semplice teoria basata su di una cruda retribuzione o su di una reazione uguale e contraria alla causa. Mentre invece “il Karma è indescrivibilmente profondo” (Gahana Karmana gatih), dicono i saggi.

Il Karma innanzitutto è complicato da una miriade di ramificazioni contorte da interconnessioni tra passato, presente e futuro. Il tantrismo riconosce che in fondo a questa molteplicità materiale sta un’unica Realtà creatrice che la intesse, e tessere è il significato della radice etimologica di tantra. Cosicché la causa risulta implicita nell’effetto e l’effetto potrebbe, in un certo qual senso, essere considerato come la causa stessa osservata però da un altro punto di vista: ad esempio il seme contiene in sé l’albero e l’albero a sua volta produce i semi.

“La causa è l’effetto nascosto e l’effetto è la causa rivelata”, scrive Svoboda in “La Legge del Karma” (edizioni Vidyananda, Assisi, 2003). Sarebbe questa l’essenza della teoria del Karma definita Satkaryavada. La cui variante Sankhya interpreta gli avvenimenti come trasformazioni in atto (parinama), in quanto la dualità mondana coesiste con la Realtà ultima dell’universo e “Tutto è in uno”.

Ogni cosa si è evoluta dal senso di separazione della singolarità primordiale non manifesta. Prakriti, da Natura qual è, si scinde dal Purusha per lo spontaneo desiderio di fare esperienze, percepire, conoscere e procreare. La coscienza cosmica si proietta in intelligenza trascendente indifferenziata e quindi si suddivide in ahamkara individuali, produttori di ego. Sono questi a piantare semi karmici nel corpo causale (karana sharira), che, ad avvenuta maturazione, fruttificano nel corpo astrale (sukshma sharira), il quale, a sua volta, induce il corpo fisico (sthula sharira) a raccoglierne comunque i risultati.

La somma delle azioni passate è il karma accumulato (sanchita), e quanto di esso è pronto per essere sperimentato è il karma messo in moto (prarabdha). Entrambi non possono venire modificati da ciò che in proposito viene fatto adesso, kriyamana, né dalla nostra capacità di previsione degli imminenti accadimenti dell’immediato futuro, agami. Questa possibilità di modificare le cose agendo nel “qui ed ora”, che risulta dalla somma di kriyamana ed agami, è la corrente vartamana. Se ciò è già stato intrapreso con successo è arabdha (cominciato), altrimenti rimane anarabdha (non avviato).

Tra fato (daiva) e libero arbitrio esistono gradi di differente intensità di prarabdha karma. Il dridha, fisso ed immodificabile, predestinato insomma; il dridha-adridha che è suscettibile di qualche influenza, e l’adridha più facilmente modificabile senza fatica dal nostro libero arbitrio, anche se sempre fino ad un certo punto.

Il più importante fattore di intensità karmica resta pur sempre la consapevolezza, la capacità di identificarsi con le proprie azioni, la quale rende possibile la sperimentazione di molti più effetti nel corso di una sola esistenza. E si, perché la dottrina karmica, per esaurire le reazioni pendenti o residue, ipotizza l’opportunità di reincarnarsi, con la trasmigrazione di prakriti, mentre Purusha ordisce la trama delle nuove interazioni.

Il karma è una intrinseca proprietà dell’universo, e così come non va confuso con il fato, deve pure venire distinto dal “peccato”, inteso quale violazione di regole, ma meglio sarebbe dire “non conformità” alla propria natura, adharma, contrario al dharma, equivalente a far ciò per cui siamo venuti al mondo. La valenza persecutoria del peccato andrebbe allora interpretata nel senso che si è puniti non già “per” le azioni, ma semmai “dalle” azioni compiute.

Ciascun atto intenzionale genera un residuo karmico, karmashaya, con vari samskara (tendenze latenti), i quali in ultima analisi si convogliano per dare origine a due specie di vasana (impressioni). Una registra la memoria dell’atto, l’altra procura afflizioni (klesha). Al fine della rinascita, al momento del trapasso, la somma dei residui karmici non attivati, dei samskara e dei vasana (jiva) determina il tipo di corpo (jan), la durata dell’esistenza (ayus), la quantità e varietà di bhoga (piacere/dolore), a fronte della progressiva maturazione di ogni residuo karmico pendente (vipaka).

La natura del karma dipende poi soprattutto dalla sostanza usata dall’ahamkara per identificarsi consapevolmente con le proprie azioni. Con il predominio di sattva (equilibrio) non sussiste attaccamento alcuno con i risultati delle azioni. L’influsso della passione è rajas (attività, movimento, agitazione) e l’agire senza pensare alle conseguenze è tamas (inerzia).

Per fornire una spiegazione plausibile della trasmigrazione,  si ricorre alla dottrina dei cinque fuochi Panchagnividya. Le anime dei morti vagano sino a ritrovarsi nella sfera della luna, per trasformarsi in nettare lunare, il soma. Discendono poi come pioggia fertilizzante, grazie alla quale la terra ci offre i prodotti necessari all’alimentazione; ed il cibo viene metabolizzato in seme per la conservazione della specie.

I genitori della futura incarnazione vengono individuati dalla legge dell’attrazione universale, che impone ad ogni forma di energia shakti di fluire verso una direzione precisa, seguendo il suo proprio corso. Ogni azione, persino ciascun pensiero, possiede una stretta relazione con il suo oggetto.

Il concetto di rnanubandhana indica proprio il debito karmico a cui siamo legati. E nessuno, nel nostro mondo, si può considerare talmente indipendente da sentirsi libero dal bisogno di trarre nutrimento dall’ambiente circostante. E da qui scaturisce la necessità di una pratica vegetariana. Poiché il cibo, alla stessa stregua del sesso, rappresenta la maggiore modalità di condivisione del karma. La “Manu Smriti” sostiene che persino un jivanmukta, colui che si è liberato in vita, può ritrovarsi nuovamente legato alle catene del samsara, esistenza manifesta, accettando del cibo dalla mano sbagliata.

L’offerta pinda degli antichi rituali vedici serviva ad appagare gli antenati e nello Jyotish si dice che fino ai sette anni si sperimentano i frutti karmici materni e dai sette ai 14 quelli paterni. Dopo la pubertà, anche quelli dei propri partner sessuali. Se coloro che intrattengono rapporti si identificano con essi, con questi scambi inducono lo sviluppo di ulteriori legami terreni e di future incarnazioni (pravritti). Mentre invece, con la non identificazione, si ottiene nivritti, il ritiro dal mondo dell’azione, il cui percorso culmina nel moksha, la liberazione dalla necessità di rinascere. E’ questo il sentiero dei sannyasi, quelli che letteralmente stanno “in coma”, i quali condividendo il karma della loro comunità, assorbono l’austerità ascetica (tapas) e l’energia spirituale (tejas) dei loro guru.

Al fine di conseguire determinati scopi karmici, i Veda hanno elaborato dei metodi specifici. Si tratta per lo più dei sacrifici yaga o yajna, che soddisfano le divinità grazie alla forza vitale (prana) incanalata sotto forma di fragranze. Lo Shatapatha Brahmana individua nell’essere umano la migliore vittima sacrificale, di gran lunga superiore al solo sangue o al succo della pianta del soma. In uno dei trentadue racconti del Trono del Leone (Simhasana Dvatrimshati) si narra, però, di come re Vikramaditya eviti di divenire vittima sacrificale.

Difatti, al posto di una testa umana recisa, durante le festività per la luna piena d’agosto, si impiega una noce di cocco, che in effetti somiglia ad un cranio, per via dei tre forami, per la durezza del suo guscio, per la polpa interna analoga alla materia cerebrale, e per il liquido contenutovi simile al fluido cefalorachidiano. Nella testa, di per sé un microcosmo, si ritiene si concentri l’essenza stessa dell’universo, la perfezione dell’esistenza, il potere vitale, quasi fosse il mezzo più enfatico attraverso cui compiere il karma di ricreare l’armonia nell’universo interiore.

Appunto, Antaryaga è un rito sacrificale interiore. La Kaushitaki Upanishad descrive l’adorazione del fuoco sacro agnihotra, mediante l’offerta del respiro, e quindi del prana, o come oblazione della parola. Gli Aghori si comportano allo stesso modo, quando ritengono che il mondo non sia altro che un immenso smashan, in cui stiamo lentamente consumando la nostra esistenza. Del resto è pur vero che “chi giace a terra non può cadere”, come si legge nello Srimad Bhagavatam (XI,21,17) ed il terreno più basso è proprio quello dello smashan.

Tutto ciò che non è pura coscienza non è altro se non zavorra ed immondizia, impurità la quale, solamente arrivando al punto di fusione, si trasforma in dolce ed appetibile ambrosia. Nell’inno a Kalì, Karpuradi Stotra si legge che la dea riceve in sacrificio le impure carni di capra, bufalo, gatto, pecora, cammello, e uomo, metafore tutte rispettivamente di lussuria, collera, cupidigia, torpore, invidia ed orgoglio. In un tale clima di analogie, tagliarsi la testa allora può significare separarsi da ogni attaccamento emotivo ed è questo il miglior sacrificio, nel senso letterale del termine, cioè quello di rendere sacro.

“Se vogliamo godere Dio dobbiamo staccarci la testa dal corpo e tenerla tra le mani” recita Tukarama Gatha. Separare la propria consapevolezza dalle distorsioni provocate dalle limitazioni corporee. Sopprimere ahamkara, l’autoidentificazione, per liberare definitivamente l’energia del serpente dormiente alla radice della colonna vertebrale, kundalini.

Decapitare il serpente, o trafiggerlo è un tema equivalente a passare da uno stato incondizionato ed  amorfo di potenzialità ad uno stato organizzato, in cui attuare il virtuale corso causale del karma. Shesha Naga è il mitico pitone che sostiene il mondo. Conficcare un chiodo nella sua testa, allorquando si intraprende un’opera, significa ripetere il gesto primordiale con cui Indra ha dato inizio alla creazione. Shesha vuol dire infatti ciò che rimane, lo sfondo insomma che completa lo scenario cosmico.

Non identificarsi con il compimento dei propri doveri, pur agendo in conformità con il proprio dharma, corrisponde ad uno stato attivo di equilibrio Karmasamya. Meditando sulla transitorietà della vita, ce ne sentiremo ospiti casuali ed effimeri, privi di attrazione per gli oggetti dei sensi. La rinuncia (tyaga) ai frutti del rituale (dravya), in favore della divinità (devata), costituisce quindi l’essenza stessa del sacrificio, il centro (marma) del dharma. Eppure, per soddisfare la nostra divinità, è sufficiente il sacrificio quotidiano della nostra presunzione. Infatti, pur essendo Purnatmaka Purushottama, perfezione personificata, qualunque divinità è solo una delle innumerevoli forme della sacralità a cui ci si può dedicare. I testi bhakti descrivono Krishna come un “dolce delinquente” perché costringe a fare ciò che i debiti karmici richiedono. Forse però è il caso di definirlo piuttosto un divino briccone, un trickster, perché il modo migliore per affrontare gli appuntamenti karmici è l’astuzia ed il tatto (kala), e giammai la forza bruta (bala).

 

Robert E. Svoboda:”La Legge del Karma”, edizioni Vidyananda, Assisi, 2003